(Tratto dalla rivista “Progetto lavoro per una sinistra del XXI secolo” aprile 2011)
a cura di Roberto Mapelli
Alle prossime elezioni amministrative Basilio Rizzo è capolista a Milano della lista “Sinistra per Pisapia”, che raccoglie Federazione della Sinistra, Partito Umanista e altri gruppi della sinistra alternativa milanese. “Sinistra per Pisapia” inoltre fa parte della coalizione di centro-sinistra e dunque appoggia il candidato sindaco Giuliano Pisapia. Basilio Rizzo ha iniziato la sua attività politica verso la fine del 1967 nel movimento degli studenti. Nel 1983 è stato eletto consigliere comunale di Milano nelle liste di Democrazia Proletaria. E’ stato successivamente sempre rieletto, portando nel 2001 per la prima volta in Consiglio Comunale una lista civica di sinistra, confermata nell’ultima consiliatura con il nome “Uniti con Dario Fo per Milano”.
La “sicurezza” è il refrain consueto delle campagne elettorali amministrative milanesi. Come lo si può coniugare da sinistra? O si tratta di un falso problema da smontare?
Intanto non bisogna negare il problema ma dargli una giusta identità. Si tratta del disagio profondo indotto dalla stratificazione delle aree cittadine a seconda di ciò che si possono permettere i vari ceti sociali. Il prezzo al metro quadro degli immobili potrebbe essere, preso in proporzione inversa, un buon indice della percezione di insicurezza (infatti nessuno ha paura, per esempio, a camminare nelle strade del centro). Questa percezione, che diventa paura quotidiana, non fa amare e spesso fa addirittura odiare il quartiere in cui vivi, da cui vorresti andartene – ma non puoi per motivi economici – verso zone migliori e più curate. E trasferisci il tuo disagio, non contro l’amministrazione assente e complice del degrado, ma contro gli ultimi arrivati: ovvero si scambia un ulteriore effetto del degrado (la concentrazione di immigrati o di strati deboli della popolazione, che si possono permettere solo certi quartieri, certe abitazioni, con il loro sovraffollamento) come ne fosse la causa. In certe periferie il consenso alla Lega è l’incasso della falsa correlazione tra arrivo degli immigrati e insorgere dei problemi di sicurezza.
La creazione ad hoc della paura (sia mediaticamente che tramite l’assenza di politiche di accoglienza e integrazione) ha quindi uno scopo politico preciso sul versante sociale: minare la spontanea propensione delle classi popolari alla solidarietà di classe e quindi all’organizzazione comune del conflitto (come avvenne, per esempio, negli anni 60 e 70 nel rapporto con gli immigrati dal Mezzogiorno).
Il centrosinistra, storicamente, si è caratterizzato per il buon governo delle città. Appare ancora capace di questo? Perché la Lega e il centrodestra si affermano anche nelle regioni rosse?
Il welfare garantito dal cosiddetto buon governo di regioni, province e città amministrate dal centrosinistra viene vissuto dalle loro popolazioni come acquisito “definitivamente”, come normale e intoccabile. Questo, per un verso, non fa sì che divenga determinante, nella scelta di voto, il rischio di perdere questa conquista e, per un altro, amplifica l’indignazione per i casi di mala gestione dove non te li aspetti, a opera di chi ritenevi fosse al di sopra di ogni sospetto. Le vittorie della Lega e del centrodestra sono quasi sempre più il frutto della disaffezione e dell’astinenza dal voto nei confronti di chi ti ha deluso che non trasmigrazioni ai valori del tradizionale avversario. Inoltre la Lega (più che la destra di Berlusconi) veicola con la sua campagna contro gli immigrati una parte dello smarrimento sociale di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e l’assenza di visibili alternative di sinistra.
Come sempre corruptio optimi pessima (“ciò che era ottimo una volta corrotto è pessimo”): e la responsabilità di questa gravissima cosa va cercata in primis nella degenerazione della sinistra stessa, incapace, in questi anni, di parlare un linguaggio diverso da quello liberista dell’avversario di classe e impegnata nelle politiche peggiori, a partire dalle privatizzazioni.
Da quasi vent’anni i sindaci vengono eletti direttamente dai cittadini. All’epoca di questa “riforma” a sinistra si gridò che era una deriva populista, una “delega” che sostituiva la rappresentanza partecipata. A distanza di tempo, quale bilancio possiamo stilare? Davvero il sindaco è “più vicino” ai cittadini? Davvero è meno influenzato dai partiti? Davvero quella scelta “diretta” ha favorito il buongoverno?
Il bilancio è a mio avviso assolutamente negativo. Il potere dato al sindaco ha svuotato totalmente la funzione di controllo e di veicolazione delle istanze dei cittadini da parte dei consigli. Nei comuni gli assessori, “licenziabili” dai sindaci, in quanto non eletti, sono privati della possibilità di dissentire se non al prezzo di “scomparire”. Ciò ha ulteriormente accentuato il potere dei sindaci, facendolo sostanzialmente assoluto, e ne ha prodotto due categorie: quelli che esercitano una sorta di “signoria”, in ragione della loro capacità di essere eletti per la loro forza economica (la Moratti è l’esempio perfetto di ciò), e quelli prodotti da intese extraistituzionali tra partiti o frazioni di partito, con buona pace della democrazia. Alcuni sindaci “potenti” e i loro entourage sono addirittura partiti dentro al loro partito.
Dobbiamo anche questo a una tipica mistificazione relativa ai sistemi elettorali maggioritari. All’apparenza i cittadini risultano coinvolti direttamente nell’elezione dei sindaci, i vari candidati a questo ruolo essendo sulla scheda elettorale: nella realtà sono costretti dalla logica maggioritaria, che tende a eliminare le differenze di programma e a produrre una delega assoluta ai vincitori, a rinunciare a ogni controllo sul loro operato, anche solo attraverso i partiti.
Quando si tratta di affrontare temi di grande rilevanza quale quello dello sviluppo delle grandi aree metropolitane, con annesse grandi opere (Expò), sono spesso sorti problemi di competenza tra amministrazioni locali e nazionali. E il cittadino è sovente portato a pensare che sulle scelte che attengono alla qualità della vita urbana tutti apparentemente decidono ma nessuno realmente decide. Qual è la tua opinione? Come riavvicinare concretamente il cittadino alla vita municipale, oggi percepita come lontana?
Vi è una parola che va molto di moda nel dibattito politico: “sussidiarietà”. Ovviamente ognuno la declina a modo proprio, ma serve a conferire validità indiscussa e indiscutibile a opinioni diversissime tra loro. Io penso che la regola debba essere questa: le decisioni debbono essere prese al livello più basso possibile e secondo le modalità più controllabili direttamente da chi sia oggetto delle decisioni assunte.
Tradotto in una grande metropoli: bisogna che alcune decisioni, quelle legate a un circoscritto ambito territoriale, le prendano municipalità dalle dimensioni medio-piccole definite dalla conoscenza diretta fra amministratori ed amministrati, invece che le decisioni su scala più ampia (su trasporti, viabilità, servizi a rete, ecc.) siano prese a livello di area metropolitana. E, a salire, da consorzi fra comuni, regioni, conferenze delle regioni d’area, governo nazionale. Inoltre nell’erogazione dei servizi che regolano l’accesso a diritti dei cittadini dovrebbero essere previsti nuovi soggetti istituzionali, che fungano da camera di confronto-compensazione tra utenti del servizio nelle diverse accezioni.
E su Expò 2015?
L’Expò è il tipico caso in cui si mitizza la positività di un’idea a prescindere dalle scelte concrete che a suo nome possono essere fatte. “L’Expò è una grande risorsa per Milano”: ecco un mantra che viene costantemente riproposto, che mira a far sentire come poco votato alla modernità, all’innovazione e al progresso chi non lo accetti, e che acceca i giudizi perché non si fonda sull’esame di ciò che viene approntato. Lo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita” è solo suggestivo e serve a occultare il consumo di territorio, la speculazione sulle aree, un’operazione commerciale tutta a misura di grande finanza e multinazionali. La declinazione ambientalista, che aveva il suo segno nella centralità del grande orto planetario, lascia oggi il posto a una più prosaica via libera a costruzioni nelle aree del sito espositivo o prossime a esso. Gli scontri per le poltrone di comando tra regione, governo e comune (stessa casacca politica, diverse “famiglie” di potere) testimoniano cosa in realtà stia a cuore: il controllo del flusso e dell’impiego delle risorse. L’Expò poi è il paradigma di quelle opere pubbliche – peraltro promesse da anni e mai realizzate – che convogliano risorse nell’area già più ricca del paese e che servono assai più a realizzare le operazioni immobiliari dei soliti noti che non una razionalizzazione della mobilità urbana, dell’assetto urbanistico e di quello abitativo.
Ciò ormai respinge i milanesi. D’altra parte perché mai dovrebbero entusiasmarsi, data questa prospettiva?
Di qui al 2015 si dovrà quindi pensare a limitare i danni, a evitare i buchi di bilancio, a condizionare il costruito a possibili riusi sociali utili. Inoltre, tentando di non fare figuracce di fronte al mondo intero, si dovrà tentare di garantire almeno un periodo di vivacità culturale e di confronto tra persone provenienti da tutto il mondo, con particolare riferimento ai giovani.
Sei candidato capolista di una lista larga di sinistra alternativa, costruita intorno alla Federazione della Sinistra. Che tipo di percorsi politici si dovrebbero intraprendere perché la sinistra alternativa possa avere una possibilità di crescita?
Penso che si debba collocare il meglio dei valori alti della sinistra nella vasta area sociale che domanda buona politica e non trova convincente l’offerta presente nell’attuale panorama. Si tratta cioè di evitare che venga buttato dentro al calderone generale del distacco di massa dalla politica quanto vi è di organizzato nel campo della sinistra di alternativa, innervandolo – anche per trasformarlo in meglio – sulle esperienze di associazioni, movimenti, comitati, energie civiche. Ritengo che sia questa l’opzione efficace.
Si tratta dunque di cogliere nelle lotte in difesa dei beni comuni, l’aria, l’acqua, il territorio, l’energia pulita, un dato di identità e un terreno di unità. Sul piano soggettivo ciò dovrebbe unirsi a comportamenti di sobrietà, umiltà e accentuato disinteresse personale: in modo da fare passi in avanti quando le sfide siano difficili e sembri più comodo non esporsi, inoltre passi indietro quando ci si accorga di essere di ostacolo (a torto o a ragione) al raggiungimento di livelli più avanzati nella ricostruzione di soggetti politici e istituzionali capaci di suscitare speranze di successo ed entusiasmo nella società.
Credo che la ragione fondante la lista “Sinistra per Pisapia” stia in questo senso di marcia. E se non è stato possibile fare di più, non per questo bisogna svilire quanto di unitario si sia riusciti a realizzare. Il 15 e 16 maggio e, inoltre, il 12 e 13 giugno referendari possono diventare momenti importanti di svolta nella storia della sinistra italiana.