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La sinistra non è immune dal patriarcato

Tratto da: http://www.laspina.red/2020/12/29/la-sinistra-non-e-immune-dal-patriarcato/?fbclid=IwAR039EPXWhDkXQsAKrGAYgBjkYu0hRNKr0PMNcVGsuiri1FcYSC2MfIhD1I

di Martina Briccola, Edoardo Casati, Riccardo Gandini

La storia della violenza contro le donne è strettamente correlata all’idea arcaica della donna come proprietà privata, sottomessa a un uomo “proprietario”. L’immagine della donna come oggetto non autonomo e oppresso nasce con l’affermarsi dell’istituzione sociale del patriarcato, un sistema mondiale globale in cui le disuguaglianze di genere si perpetuano costantemente. Il patriarcato attraversa tutti gli aspetti socio-culturali e gli ambiti di vita di donne e uomini, dalla più intima sfera affettivo-familiare, alla più ampia dimensione economica, politica e sociale. Tutti siamo chiamati a prendere una posizione davanti a questa struttura di ingiustizia per la quale sulla base di una differenza biologica si genera una differenza sociale.

Il mondo della sinistra è tradizionalmente “al fianco delle donne”, delle loro lotte contro il patriarcato e il sistema di violenze e sessismo che esso perpetua. Femminismo e comunismo vanno perciò da sempre di pari passo nella lotta contro le diseguaglianze sociali e il sistema capitalistico, e ideologicamente il pensiero comunista non può ammettere l’oppressione maschile e la violenza sessista. Ciò è teoricamente vero, se non fosse che tra il dire e il fare ci sono di mezzo i retaggi socio-culturali prodotti dalla società patriarcale e capitalistica in cui viviamo, che influenzano i comportamenti e le azioni di tutti, compagni compresi.

Nella figura dei compagni, le donne trovano un importante supporto, e nei circoli e nelle sedi di partito un luogo in cui sentirsi al sicuro e lontane da atteggiamenti fortemente conservatori e discriminatori. Ma non sempre è così, perché anche quegli ambienti politici che sembrano più lontani dalle idee sessiste e maschiliste tipiche della più becera visione politica di destra, spesso assumono atteggiamenti e pensieri in contrasto con le lotte che tanto rivendicano. E se proprio questi luoghi possono prevedere violenze e molestie sessuali e verbali, discriminazioni e prevaricazioni, allora ciò significa che qualcosa, nella mentalità di chi quei posti li frequenta e vi milita, non va.

Questo lo sapeva bene la compagna partigiana Lidia Menapace, che in più occasioni ha raccontato e denunciato un clima non proprio solidale e rispettoso delle donne all’interno del PCI e tra i compagni che vi militavano. Con rabbia ha spesso ricordato quel 25 aprile 1945, quando il segretario Palmiro Togliatti disse a gran voce che le donne non dovevano essere presenti in piazza per festeggiare la Liberazione, perché troppo spesso considerate alla stregua di “prostitute dei partigiani”. Proprio quelle donne che, con coraggio e determinazione, avevano condiviso la montagna e lottato a fianco dei compagni uomini, venivano così considerate da questi ultimi delle “poco di buono”. Le donne delle brigate Giustizia e Libertà, come raccontò la compagna Lidia, decisero invece di sfilare lo stesso, e la loro presenza fu screditata da insulti e volgarità proprio da parte dei compagni di partito.

“Compagni in sezione, fascisti a letto”: un’affermazione molto forte e provocatoria, nata da una lettera scritta dalle compagne dell’UDI (Unione Donne Italiane), che fece arrabbiare tanti compagni di partito, offesi e risentiti per l’essere stati paragonati al nemico fascista. Eppure quella parola così estremizzata e tanto contestata rispecchiava proprio il comportamento contraddittorio e violento di molti compagni che, se nelle sezioni si prodigavano in discorsi aperti alla lotta e all’emancipazione femminile, nel privato delle loro case portavano avanti la cultura sessista del patriarcato. “Non è un problema che riguarda la sessualità” spiegava la compagna Menapace in uno dei suoi tanti brillanti discorsi alle compagne, “ma è una questione che riguarda il potere e la proprietà”: in questo senso, la radice del patriarcato è la “proprietà” dell’uomo sulla donna, la sua pretesa di considerarla tale e il potere di farne una cosa “sua” (la registrazione dell’intervento è in fondo all’articolo ndr). Sono concetti apparentemente ben lontani dal pensiero politico comunista e di sinistra, eppure così vicini e fatti propri da coloro che nella sfera pubblica lottano per abbatterli. Non sono stati immuni quindi nemmeno la resistenza e la rivolta delle classi oppresse contro le classi dominanti da devianze verso sistemi patriarcali di proprietà della donna da parte dell’uomo.

In particolare negli ultimi anni si è vista l’affermazione di nuove teorie di pensiero, di stampo hegeliano e antimaterialista, spacciate per pseudomarxiste, le quali hanno affermato una presunta separazione tra diritti civili e diritti sociali, concependo un disegno di mistificazione volto a confondere i militanti e i simpatizzanti politicamente meno preparati in una contrapposizione inesistente, forse abusando della contrapposizione tra anarchici e comunisti. In particolare sembra si confonda il dibattito tra Marx e Bakunin sulla necessità per il primo di volgere prima ad una liberazione collettiva della classe sfruttata tramite la dittatura del proletariato e per il secondo di dare la priorità alla liberazione dell’individuo in quanto tale. In particolare, filosofi come Fusaro sfruttando tale contrapposizione, da una posizione paradossalmente anticomunista e antimaterialista tacciano i comunisti che lottano anche per i diritti civili, libertà d’impresa e altre amenità escluse, di non rispecchiare i veri valori del comunismo prediligendo forme anarcoidi funzionali, a detta dell’autore, al capitale. L’apparato ideologico di tali teorie affermerebbe invece come la priorità andrebbe data ai diritti sociali, un costrutto che, come i diritti civili, è nato in seno allo Stato borghese, in particolare in funzione di prevenzione da eventuali rivoluzioni proletarie tramite la creazione di forme di assistenzialismo sociale, garanzia di alcune libertà sindacali e di diritti per i lavoratori e lavoratrici.

Tale impianto idealista oltre ad essere una radicale revisione delle teorie di Marx e Engels, in particolare di quanto espresso nel “Manifesto del Partito Comunista” e nelle “Origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” è privo di qualsivoglia fondamento sul piano storico e pratico. Engels stesso ben analizza il rapporto tra capitale, patriarcato e ruoli sociali basati sul genere sessuale. Seguitamente tutti i grandi movimenti comunisti del Novecento, da quelli di derivazione prettamente leninista a quelli maoisti, non hanno mai operato discriminazioni simili, cercando chi più chi meno di favorire la creazione di una visione di cittadinanza alternativa a quella borghese, comprendente il più ampio novero di diritti legati alla dignità umana sul piano economico e sociale ma anche un certo grado di libertà individuale, spesso compressa a causa di un certo autoritarismo la cui necessità non sarà esaminata in tale articolo ma quantomeno garantita sulla carta e mai totalmente soppressa.

In questo quadro rientrano anche i compagni e le compagne che prendono sottogamba la lotta per i diritti delle donne e della comunità LGBT+, tralaltro danneggiando trasversalmente anche lotte da loro considerate più “tradizionali”. La disparità di salario tra donne e uomini nel mondo del lavoro non collegherebbe i due ambiti? La questione di uno stipendio idoneo a garantire un minimo di dignità ad una famiglia costituita da due uomini o due donne non è forse una battaglia “sociale”?

Il dibattito sulla stretta correlazione tra capitalismo e patriarcato ha messo in luce che la legittimazione dei rapporti di sfruttamento e dominio nella nostra società hanno radici nel rapporto tra uomini e donne. La permanenza, in ogni luogo e in ogni forma, della violenza, sia essa esplicita o ben nascosta, nei confronti delle donne, rivela la profondità di queste radici.

Sessismo, maschilismo, potere, discriminazione. Affrontare queste problematiche è proprio il compito di chi vuole cambiare il sistema e lotta per una società migliore; ma non basta sventolare bandiere e srotolare striscioni in piazza per dirsi femministi e antisessisti, a maggior ragione se gli atteggiamenti e le azioni che tanto si contestano nella sfera pubblica vengono poi attuati acriticamente nel privato.

Molestie sessuali e verbali, avances fin troppo esplicite, mansplaining, complimenti non richiesti e del tutto inappropriati: sono tante le forme con cui il sessismo e la cultura del patriarcato si è annidata e continua diffondersi indisturbata anche nei luoghi di lotta. Tante, troppe, sono le compagne che hanno vissuto situazioni violente nelle sedi di partito, tante si sono sentite umiliate, tante hanno percepito sguardi di troppo. Tante ancora hanno subito in silenzio l’umiliazione e l’oggettivazione del proprio corpo. Davanti a tutto questo, è fin troppo diffusa la tendenza da parte della comunità maschile di proteggersi dalle critiche, di professare un atteggiamento omertoso e negazionista di un comportamento sessista e discriminatorio che è parte della società in cui vivono. E ancora una volta, questo clima fa capire la portata globale di un problema che non è un mero fenomeno circoscritto a determinati contesti politici e socio-culturali, ma è una questione sistemica che riguarda tutti gli uomini, compagni compresi.

Ed è proprio davanti alle accuse delle donne verso i compagni di partito, che la risposta è sempre la stessa: “non tutti gli uomini sono così!”. Un vero e proprio mantra, uno slogan usato e abusato, quasi sempre senza un minimo di autoconsapevolezza dei propri pensieri e delle proprie azioni; una retorica insulsa che non apporta nessun aiuto alla donna vittima di violenza maschile, ma che serve solo ed esclusivamente a discolpare e allontanare l’uomo dalla problematica che, in quanto sistemica, lo riguarda.

E così la violenza di genere, anche nelle sedi di partito, finisce per essere vista come un caso isolato attuato da uomini problematici, mentre la donna è solo una povera sfortunata che forse tanto vittima non è. Ora più che mai è importante che i compagni non si nascondano dietro retoriche controproducenti, ma compiano quell’importante processo individuale e collettivo di autocoscienza e autoriflessione che li renda consapevoli della cultura patriarcale che indirettamente li influenza nelle azioni e nei comportamenti. Ciò è possibile solo mettendosi in una posizione di ascolto e rispetto delle compagne, dando loro più spazio e più voce, supportandole nelle loro lotte, non solo quelle nelle piazze, ma anche le lotte quotidiane tra le mura domestiche.

Nella storia politica passata e odierna, c’è un’immagine convenzionale che è sempre stata utilizzata per spiegare e far comprendere le evidenti differenze tra l’esperienza umana maschile e quella femminile: è l’immagine della “sfera pubblica” contrapposta alla “sfera privata”. Nel pensiero comune, la vita degli uomini si svolge nella più visibile e considerevole sfera pubblica, mentre quella delle donne nella maggior parte dei casi si trova a ridursi nell’invisibile e irrilevante privato.

Oggi questa immagine divisoria continua a essere utilizzata e perpetuata acriticamente, nonostante le donne siano presenti in tutti i luoghi e gli spazi della vita pubblica. È una contraddizione che esiste fin dagli albori del patriarcato, perché è funzionale ad esso in quanto mostra una ben precisa visione della storia delle donne: una storia fatta di sfruttamento, diseguaglianze e discriminazioni su vari livelli.

Negli anni Settanta, con i movimenti femministi, sempre più donne iniziarono a comprendere quanto fosse necessario e importante unirsi per riflettere sulla propria condizione sociale, e per cambiare il sistema che le relegava ad un ruolo subalterno rispetto all’uomo. Furono proprio le donne di quegli anni ad aver formulato il famoso slogan “il personale è politico”, facendolo non solo entrare nel lessico comune, ma rendendolo uno dei punti più importanti della loro lotta e una vera e propria rivendicazione sociale e materiale. Nacquero così i gruppi di autocoscienza, nei quali le donne si ritrovavano per discutere delle loro esperienze personali e dei molteplici e stratificati problemi che dovevano affrontare fuori e dentro gli ambienti familiari. Furono tanti gli uomini che cercarono di screditare tali iniziative, definendole delle mere sedute di terapia per donne problematiche, sminuendo così il valore e l’importanza di quegli incontri. Ma ciò che stava avvenendo era una vera e propria rivoluzione politica e socio-culturale: le donne infatti avevano scoperto un efficace mezzo per politicizzare la comprensione di ciò che sperimentavano nel quotidiano delle loro case e che erano costrette spesso a dover nascondere in quanto socialmente considerato “affare privato”. Si arrivò così a capire che rivendicare il personale come politico non significava solo considerare un caso di violenza sessuale come un attacco personale alla singola donna che lo ha subito, ma come un vero e proprio attacco politico alle donne per mano di un sistema patriarcale e maschilista e di una società non in grado di educare gli uomini al rispetto e alla parità di genere. Dal punto di vista marxista, tale lessico non era estraneo ma era stato spesso oggetto di deroghe o di notevoli devianze, purtroppo presenti tutt’ora. Non è un mistero che  lo stesso PCI, non una formazione femminista, dichiarava nel suo Statuto come i suoi militanti dovessero essere d’esempio e tenere una condotta rispettosa dei principi del Partito anche nella vita privata.* Una separazione tra le due sfere che infatti non è mai stata considerata, ufficialmente, in alcuna organizzazione comunista, in quanto frutto di costrutti astratti fuori da qualsiasi considerazione reale e materiale.

Ciò vale per i militanti dei partiti ma anche per i VIP o i grandi leader, per i quali andrebbe evitata la venerazione acritica o peggio l’esaltazione di aspetti della loro vita tutt’altro che meritevoli, spesso riguardanti la sfera privata. Perché i meriti politici non possono giustificare le manchevolezze sul piano personale e viceversa.

Oggi il mondo di internet e gli spazi online stanno dando un nuovo e importante contributo alla rottura della barriera fra il pubblico e il privato. In un certo senso, il web e i social media svolgono quelle funzioni di promozione della consapevolezza sulle questioni di genere che caratterizzavano i gruppi di autocoscienza degli anni Settanta. Un esempio tra tutti è il noto movimento #MeToo, movimento femminista nato online per denunciare pubblicamente la violenza e le molestie sessuali subite dalle donne, in particolar modo sul posto di lavoro. Raccontare e condividere la propria storia di violenza subita, riconoscersi in quella delle altre, ha permesso di individuare, analizzare e comprendere i molteplici e stratificati fattori che fanno sì che queste violenze non siano dei meri “casi isolati”, ma un vero e proprio problema sistemico.

In questo senso, per la lotta femminista mettere sullo stesso piano il personale e il politico ha significato, e significa tuttora, sovvertire quel paradigma su cui si fonda il potere e il dominio maschile che opprime tutte le donne. La sfera privata deve quindi necessariamente essere considerata sul piano politico, perché è quest’ultimo il più grande strumento per cambiare il personale. In tutto questo, è necessario non solo un lavoro di autoconsapevolezza da parte delle donne, ma è altrettanto fondamentale un convinto processo di autocoscienza e autocritica degli uomini, i quali attraverso una profonda riflessione sulla propria posizione di privilegio devono mettersi a dura prova, ascoltare ciò che le donne hanno da dire e affiancarle nella lotta contro il patriarcato di cui essi stessi sono figli spesso inconsapevoli.

Di questo e di tanto altro si è discusso anche nel nostro Partito: ad ogni Congresso giunge puntuale l’ordine del giorno o il documento sul rilancio delle lotte dei diritti delle donne o, come all’ultima Conferenza nazionale dei/delle GC, appelli affinché venga aumentata la vigilanza ad episodi di molestie tra militanti. Nella pratica però ancora molto poco si è fatto, a partire dalla comunicazione, spesso lasciata allo spontaneismo e ad una scarsa autodisciplina dei gruppi dirigenti in primis, che in buona o cattiva fede si danno ad espressioni e/o giudizi tali da danneggiare sia l’immagine esterna sia i rapporti interni su tale delicata tematica. Lo sforzo da fare non è enorme ma se non siamo noi per primi a cambiare mentalità e cultura, come potremo pretendere questo dagli altri? Il nostro appello è dunque di aprire fin da subito momenti di discussione e dibattito, a partire dalla giovanile e dai territori, non solo sotto forma di conferenze dedicate all’esterno ma anche di assemblee interne in cui si ragioni come intellettuale collettivo su come risolvere tali problemi, prima che essi divengano irrisolvibili.

*Art. 55, Statuto del PCI, ed. 1966.

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