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Punire chi non ha la scuola dell’obbligo?

2 Dicembre 2022

Marco Savini

Leggendo tra le numerose e recenti esternazioni del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, in particolar modo quando dichiara che chi non ha conseguito la scuola dell’obbligo non merita assistenza dallo Stato, sono riandato ai miei trenta anni passati a insegnare nell’educazione degli adulti. Propriamente in quelle che venivano chiamate “150 ore”, perché erano nate da una conquista sindacale che aveva ottenuto nei contratti un certo numero di ore pagate per seguire corsi d’istruzione.

A Vigevano per molti anni le lezioni si sono tenute al “Centro Territoriale” nei locali della scuola media Bramante. E dopo i primi tempi, durante i quali erano frequentate soprattutto da lavoratori dipendenti, man mano sono stati seguite da lavoratori autonomi, casalinghe, disoccupati, infine da stranieri, tutti utenti che non usufruivano dei permessi retribuiti.

Proprio dagli Anni Duemila sono diventati maggioritari ragazzi appena espulsi dalla scuola. I loro abbandoni avvenivano e avvengono, non più per esigenze lavorative o emigrazione, come per le generazioni precedenti, ma per insuccessi scolastici.

Ma qual è la situazione a Vigevano?

Innanzi tutto i corsi per adulti alla Bramante hanno “licenziato” più di 2.000 persone, che senz’altro hanno contribuito a migliorare i curricula personali, le occasioni lavorative e a elevare i tassi d’istruzione cittadini.

Gli ultimi dati disponibili, quelli del 2020, vedevano tra i vigevanesi, con 15 anni e più, 8.263 con al massimo la licenza elementare, pari al 15,9%, leggermente superiori ai 7.944 laureati (15,3%).

La situazione, ovviamente, si invertiva considerando la fascia di popolazione in età lavorativa. Tra i 15 ai 64 anni compresi, c’erano a Vigevano ancora 1.833 persone senza l’obbligo scolastico, il 4,8%, a fronte di 6.828 laureati, il 17,8%.

E tra i 15 e i 35 anni 216 cittadini senza scuola dell’obbligo. Quindi rappresenta solo una minoranza, per fortuna, questa quota di popolazione giovanile. In ogni caso penalizzata dall’accesso lavorativo (pensiamo solo ai colloqui, alla presentazione del curriculum, ai concorsi).

Va quindi incentivata l’attenzione della scuola verso il recupero di giovani a disagio nelle aule, ma spesso ricchi di potenzialità.

Ecco che se la scuola italiana non vuole continuare a soffrire di dispersione non dev’essere meritocratica, come sembra indicare il nome del ministero, ma accogliente (classi meno numerose, percorsi individualizzati, ecc.).

Pensiamo ancora agli stranieri di seconda generazione, ma anche verso chi non trova in famiglia sufficienti motivazioni e strumenti culturali.

E questo non solo per motivazioni professionali ma per rendere la conoscenza prerogativa alla portata di una platea più ampia di persone, in direzione di un recupero di giovani disagiati valorizzandone le potenzialità umane e in un’ottica di emancipazione, secondo lo spirito delle “vecchie 150 ore”.

Tesoro finito

18 Agosto 2022

MARCO SAVINI

C’era una volta un signore, che però era povero. Chiamiamolo… come lo chiamiamo? Giovanni? Ivan? Jean? John? Vanno bene tutti. Tanto è una storia… mondiale! Be’ quello lì aveva saputo da uno stregone – non io neh! – che c’era un tesoro nascosto in un bosco.

Se non c’è un bosco non è una vera fiaba.

Allora si è messo a cercare un giorno e non ha trovato niente. Torna il giorno dopo e non trova niente neanche quel giorno. Allora va anche il terzo giorno e niente neppure lì…

Sarà la solita storia senza fine? No speriamo che questa finisca.

Allora, cosa fa questo Jean, Ivan, John, Giovannino? Va a prendere una motosega.

Voi direte ma non c’erano una volta le motoseghe.

Ci sono adesso. Questa è una storia moderna.

Allora con questa motosega comincia a tagliare una pianta che gli sembrava che nascondesse sotto il tesoro, ma niente. Allora taglia una seconda pianta da un’altra parte, ma niente anche lì. Allora passa a un’altra parte ancora del bosco e taglia una terza pianta. E sapete cos’ha trovato?

“Il tesoro!” Direte voi.

No, tesori miei, niente anche lì. Intanto che tagliava però portava a casa la legna che bruciava o vendeva.

“Ecco il tesoro, era la legna, era il bosco”. Direte voi.

Era… Ma voi fate presto. La storia non è mica finita lì. Insomma, per farla corta, a un bel momento aveva tagliato tutte le piante. E proprio all’ultima, che non c’era più né ombra, né fresco, né animali del bosco, lui vede che si apre sotto la radice una grossa buca. Allora lui si infila e va sotto. E va… e va… e va… arriva dove c’era un grande ma grande, ma grande lago nero. Ma era scuro e lui non sapeva se era il buio o era proprio nero e allora ha acceso un fiammifero e ha visto che era proprio nero, anzi che se immergeva il suo bastone e poi attizzava la fiamma bruciava da matti.

E quindi lui si è chiesto: “Sarà mica questo il tesoro?”

E allora ne prende un po’, lo mette dentro la borraccia e pensa: “Adesso lo porto su, faccio analizzare questo olio nero e poi lo vendo. Altroché il legno, questo è il vero tesoro!”

“È finita così?” Direte ancora voi impazienti.

No, cercate di avere un po’ di pazienza, che la storia è lunga… un secolo e forse anche di più, ma sta quasi per finire. Allora lì il… il giovane cerca di tornare su, ma non ce la fa più. Non aveva portato con sé una scala e neppure una corda, che gli uomini, ma anche le donne, non sono mica previdenti, loro pensano solo all’oggi non al domani. Allora pensa e ripensa, ma non era un’aquila, come si dice. E a un certo punto gli è venuta anche paura che con tutti quei tesori, quelli che c’aveva già in banca e quello lì che c’aveva ai piedi, però doveva morire, che lì sotto mancava l’aria… e c’era un gran caldo, sembrava di essere in una serra, ma buia, senza luce.

Finalmente sente un grido, va a vedere, era un’aquila, che era andata a fare il nido proprio lì sotto. Allora chiede all’aquila se fa il favore di portarlo su. L’aquila che era rimasta senza mangiare ha detto: “Sì ti porto su, ma te devi darmi della carne da mangiare tutte le volte che te la chiedo”.

Giovannino aveva portato un fagottino con due bistecche dentro a due michette per la colazione e ha cominciato a dargliene una. Così l’aquila l’ha preso per la collottola e ha cominciato a sollevarlo.

Solo che non erano ancora volati fuori che l’aquila ha chiesto ancora “Carne” e allora Giovannino le ha dato l’altra bistecca. Stavano per uscire fuori dal buco quando l’aquila ha chiesto ancora della carne. Giovannino non ce ne aveva più e allora l’aquila ha cominciato a scendere giù velocemente, come le azioni in borsa. Allora Giovannino ha pensato – andando con le aquile si impara un po’ -. Ha tirato fuori il suo coltello si è tagliato la natica destra e gliel’ha data da mangiare. E forse ce l’ha fatta a uscire. O forse ha dovuto tagliare anche la sinistra. Ma non si sa bene, la fiaba non è ancora finita. Però io non so il finale, magari lo saprete voi che siete giovani…

Sì, ma il perché delle natiche mutilate, direte voi, non l’abbiamo capito. La fiaba è così, mica l’ho inventata io. Si vede che l’uomo per uscirne fuori, per salvarsi deve tagliare via qualcosa… non so io. Lo vedrete voi… aquile.

L’Italia entra in guerra: 24 maggio 1915

21 Maggio 2022

MARCO SAVINI

Se si osservano i bordi delle strade non si può non rimanere sconcertati dalla massa di rifiuti che si accumulano: mozziconi, lattine, plastiche, persino mascherine. Ma, in queste settimane affiorano anche mille papaveri rossi. E nella ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio del 1915, può essere appropriato usarli come simboli delle guerre.

Il loro colore rosso è sempre stato evocativo del sangue versato; si diceva che a Waterloo fosse spuntata una marea di papaveri dopo la battaglia.

Famosa è anche la poesia “Sui campi delle Fiandre spuntano i papaveri“ scritta dal medico canadese John McCrae, forse segnato dalle ferite dei numerosi soldati che aveva dovuto soccorrere dopo la disastrosa seconda offensiva su Ypres (luogo tristemente famoso per l’iprite, il gas letale lanciato nelle trincee).

Il papavero è così diventato simbolo del ricordo dei caduti sui vari fronti. Papaveri di stoffa furono preparati e poi venduti per aiutare le famiglie degli sfollati dalle zone colpite dalla guerra. In Inghilterra ancora oggi vengono indossati per ricordare quella che doveva essere la “guerra per fermare tutte le guerre”.

Ha scritto il prof. Giulio Guderzo: “In definitiva la grande vera perdente, nel 1° come nel 2° conflitto mondiale, è stata l’Europa, pagando carissima la peste nazionalista inoculata dalle monarchie”.

Allora come ora, cosa intendiamo per nazionalismo? Viene definito come un’esaltazione esagerata della propria patria, che può avere quando degenera in razzismo, intolleranza verso le minoranze, volontà di potenza, espansionismo.

Forse allora non è il caso di celebrare l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra, così insanguinata e pagata a caro prezzo, e forse neppure la vittoria, quanto la fine della Grande Guerra, come di tutte le guerre.

Concludo con un’ultima citazione: “Tu mi costringi, o regina, a rinnovare un indicibile dolore”. È Enea che così risponde alla regina Didone, nell’Eneide, quando gli viene chiesto della caduta di Troia e del massacro dei suoi abitanti. Come per Enea, anche per noi pensare a quest’ultima guerra che sembra non finire mai nel conteggio dei giorni e dei morti, è rinnovare un indicibile dolore.

Ma ricordare questo dolore è la strada per mantenere vivo uno spirito di pace e di opposizione alle guerre di ieri, di oggi e di domani.

Chissà quanti papaveri rossi sono spuntati negli ex-granai dell’Europa.

Lo sciopero contro la guerra

13 maggio 2022

Marco Savini

Generalmente, quando si discute di storia locale si prende in considerazione un solo aspetto della questione: la storia locale come conoscenza del territorio nel quale si vive, mentre esiste una seconda faccia del problema molto meno scontata e senz’altro più importante: si tratta della dimensione locale della storia generale.

In questi tempi minacciosi può essere utile ricordare uno sciopero contro la guerra avvenuto esattamente 105 anni fa a Vigevano, nel pieno della Grande Guerra.

Come è noto l’intervento dell’Italia è stato preceduto da un vivace dibattito tra interventisti e neutralisti, e durante gli anni della guerra è stato segnato da numerose manifestazioni di protesta. Quali sono state i riflessi locali di questa drammatica fase della storia nazionale?

Seguendo di pochi giorni gli incidenti avvenuti a Milano, ma anticipando i moti che avverranno un po’ in tutta Italia, con il culmine a Torino, l’8 maggio 1917 scoppia improvvisamente uno sciopero a Vigevano che dura ben tre giorni e vede interessati, come una reazione a catena, man mano tutti i più grandi stabilimenti.

Leggiamone la cronaca attraverso il rapporto redatto dal sottoprefetto del Circondario di Lomellina.

Il sottoprefetto di Mortara ne fa una sommaria cronaca, elencando tutti gli stabilimenti di Vigevano e di Molino del Conte interessati, e quantificando in 6000 gli scioperanti, parla della propaganda “sobillatrice” dei dirigenti socialisti e sindacali.

In effetti, pochi giorni prima, in occasione del primo maggio, i dirigenti della Camera del Lavoro avevano tenuto una grande convegno contro la guerra, ma non avevano assolutamente organizzato lo sciopero generale, che anzi li coglie di sorpresa, sia per la vastità della partecipazione sia per gli incidenti, quando la linea di condotta raccomandata era sempre stata quella di mobilitazioni assolutamente pacifiche e ordinate.

Le reazioni dei dirigenti sindacali sono improntate alla rivendicazione della loro estraneità alla protesta, ma non alla sua condanna.

Nessun iscritto alla Camera del Lavoro compare tra i fermati. Il processo per direttissima che si svolge a Vigevano tra il 18 e il 22 maggio, si conclude con 13 condannati (tra cui 9 donne) per un totale di 9 anni e 9 mesi di reclusione e una multa pari a £. 1500.

L’incapacità di comprensione delle motivazioni profonde all’origine della manifestazione spinge le autorità a ricercare la mente sobillatrice delle masse, le quali si ritengono incapaci di agire da sole senza un’oscura regia che li manovri.

Dove non può colpire l’autorità giudiziaria arriva l’autorità scolastica. Viene incriminato il prof. Giuseppe Manzoni del liceo ginnasio “Benedetto Cairoli”. Tra i capi d’accusa l’aver lanciato una sottoscrizione intitolata “Pro-pace”, su schede stampate a Vigevano. La persecuzione contro il professore (che sarà trasferito d’ufficio a Gubbio e, prima ancora, richiamato alle armi) prosegue, basandosi sulla sua assenza da scuola proprio il giorno dello scoppio degli incidenti.

Ma al di là di ciò, questi interventi repressivi della autorità scolastica sono premonitori di quello che avverrà poi in periodo fascista, quando, sempre a Vigevano, una vittima illustre sarà il direttore scolastico Luciano Mastronardi, padre dello scrittore.

Poco da segnalare negli altri mesi di guerra: lo scandalo delle forniture di scarpe di cartone non sembra toccare Vigevano (anche se l’«Indipendente» mette in prima pagina una feroce vignetta di Scalarini).

Nel novembre del 1917 avviene la ritirata di Caporetto. La sconfitta pare sedare le polemiche. Lontano dal fronte poco si sa delle decimazioni e della conduzione dissennata della guerra. La lista dei caduti continua a cresce fino a superare la quota di 500. A questa carneficina si aggiungerà, fatale come dopo le guerre d’ancien régime, la grossa epidemia di influenza spagnola, che mieterà a Vigevano, nel solo 1918, 220 vittime. Una generazione risulterà decimata, le sue speranze e illusioni frustate nel “caldo” dopoguerra, attraversato ancora da grandi manifestazioni, le ultime prima del ventennio del regime fascista.

Ma nessuna di queste agitazioni, di questi scioperi vedrà una partecipazione (soprattutto femminile) e susciterà un’adesione spontanea, come lo sciopero del maggio 1917 contro la guerra.

Allora la guerra, se non in casa, era vicina. Ma ancora oggi vediamo e leggiamo di violenze, lutti e guerra, che pensavamo superati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ricordi e riflessioni ancora attuali?

La funzione della storia si misura nella capacità di indicare un orizzonte di senso complessivo degli eventi. È quindi necessario guardare contemporaneamente sia all’indietro per capire ciò che l’ha reso possibile, sia in avanti per intenderne il lascito, spesso ignorato o dimenticato.