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SE NON CI ARRIVATE, FIDATEVI

27 Novembre 2023

di Micaela Bongi

Ingovernabili, come reclama lo striscione di apertura. E ingovernate. «Oggi i maschi stanno dietro», avvertono le ragazze dal camion. E poi tutte (e tutti: tanti, i maschi) stanno di lato, a destra, a sinistra, camminano in ogni direzione ovunque.

Senza testa, senza capo (e senza coda), anarchiche e libere.

È una vera marea, quella romana che insieme alle moltissime piazze gremite in tutta Italia dà il segno di una presenza consapevole della necessità di esserci. Per gridare o solo parlare, fare rumore e stare in silenzio, incontrarsi, fluire in un’onda o improvvisare, senza parole d’ordine in un disordine preciso e potente.

È un lunghissimo filo che si srotola e riannoda tutte le generazioni e storie che non si sono mai interrotte ma che vanno sempre raccontate di nuovo. Da capo, o dalla coda.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin e il grido pieno di dolore e rabbia di sua sorella Elena, «bruciate tutto», hanno scatenato una nuova carica sovversiva.

Una carica che fa paura e che da subito ha incontrato resistenza, il tentativo di arginarla e isolarla come se si dovesse evitare la replicazione di un virus. Basta ascoltare i talk show, leggere alcuni giornali per imbattersi nella resistenza a tratti grottesca di un sistema che per perpetuarsi cerca di mettere in campo strategie antichissime e di negare l’evidenza.

Il patriarcato? Roba finita in soffitta da decenni, macché, secoli fa. Ora finalmente c’è una presidente del consiglio donna, la dimostrazione più lampante che quel sistema di potere è stato abbattuto. Quella stessa presidente del consiglio che ieri postava su Facebook «le leggi ci sono, le istituzioni ci sono, compatte, per prevenire e combattere l’abominio della violenza contro le donne» e «voglio dire alle donne italiane che non sono sole, e che quando hanno paura 1522 è il numero da chiamare».

Le leggi (che privilegiano l’aspetto repressivo e non hanno mai adeguati finanziamenti) e un numero di telefono (utile, importante e da diffondere il più possibile, certo) e passa la paura. Torniamo a dio, patria e famiglia e a fare figli per aumentare il bonus.

Torniamo (anche questo si sente in tv) alle madri di una volta, le madri che evidentemente si vogliono obbedienti e silenti. Altro che educazione sentimentale e sessuale, la rassicurante famiglia «tradizionale» è l’ancora di salvezza.

Centinaia di migliaia di donne ieri sono arrivate nelle piazze sapendo che è la loro libertà a metterle in pericolo perché minaccia il castello dove si arrocca il sistema di potere maschile. Siamo abituate a tornare a casa al buio con il cuore in gola, e il nemico è spesso dentro casa.

Ma da quella libertà indietro non intendiamo tornare e nessuna in quelle piazze ieri era sola.

Forse non tutti i maschi che ieri si sono immersi nella marea pensano che davvero bisogna «bruciare tutto», ma si sono fidati. Se non ci arrivate, fidatevi.

Basta guerra. Intervento di Abbà di adesione alla manifestazione nazionale a Genova con i portuali.

25 Febbraio 2023

Registrazione del giorno 24 a Mortara.

ANPI DI MORTARA: PRESIDIO E FIACCOLATA PER LA PACE, VENERDÌ 24 FEBBRAIO 2023, ORE 21 IN PIAZZA DEL MUNICIPIO

20 Febbraio 2023

SABATO 8 OTTOBRE IN PIAZZA A ROMA CON LA CGIL

Care compagne e cari compagni,

l’8 ottobre la CGIL, ad un anno dall’assalto alla sede nazionale di corso d’Italia, sarà in piazza a Roma per una grande manifestazione.

Il corteo partirà alle ore 13.30 da piazza della Repubblica per giungere in piazza del Popolo dove, intorno alle 17.30, prenderà la parola Maurizio Landini.

Al centro della manifestazione della CGIL la richiesta al nuovo governo e all’Europa di rimettere al centro i temi del lavoro e della giustizia sociale.

Tra i punti: l’aumento di stipendi e pensioni; l’introduzione del salario minimo e una legge sulla rappresentanza; il superamento della precarietà; una vera riforma del fisco; garantire e migliorare una misura universale di lotta alla povertà, come il reddito di cittadinanza; la sicurezza nei luoghi di lavoro; un tetto alle bollette; un piano per l’autonomia energetica fondato sulle rinnovabili.

È importante lavorare per la massima partecipazione di compagne e compagni con le bandiere del nostro partito e di Unione Popolare.

Invitiamo circoli, federazioni e regionali a prenotare rapidamente i posti su pullman treni speciali contattando le strutture della Cgil sul territorio.

C’è il rischio di esaurimento dei posti disponibili.

Con prossima comunicazione daremo indicazioni per un nostro spezzone. 

Fraterni saluti

Maurizio Acerbo, segretario nazionale PRC-SE

Antonello Patta, segreteria nazionale, responsabile Lavoro nazionale PRC-SE

Roma, 3 ottobre 2022

20/7/2001 G8 GENOVA

Racconto dei fatti accaduti in quel terribile 20 Luglio 2001 a Genova scritto pochi giorni dopo da Piero Carcano e successivamente ripreso come una ossessione mai rimossa nel tempo

Sulla decisione di andare a Genova a manifestare non ho mai avuto il minimo dubbio o alcuna esitazione.

Appena si è saputa la notizia che il vertice delle 8 cosiddette “grandi nazioni” si sarebbe tenuto a pochi passi da casa, l’unica incognita poteva essere “come?, con chi? Sotto quale bandiera? Gruppi antiglobal locali? associazioni culturali a cui appartengo? gruppi politici a cui per affinità più che per tessera sento di appartenere?”

Le motivazioni erano infatti tutte molto forti a cominciare dal perché queste poche persone si arrogano il diritto di poter decidere della vita delle popolazioni del mondo?

Perché riunirsi in pompa magna per decidere, bontà loro, di dare qualche briciola a chi hanno tolto 100, 1000 volte tanto e molto, molto di più?

Perché questi, e con loro, sopra di loro, poche multinazionali possono comandare, modificare, usare l’ambiente a loro vantaggio esclusivamente economico, inquinando e affamando intere popolazioni già povere?

E’ per riconfermare a tutto il mondo che i padroni sono loro che si tengono questi incontri, ed è quindi doveroso opporsi sostenendo le ragioni di un mondo più giusto: dall’azzeramento del debito di questi paesi alla ricerca di un’economia più equa nei suoi meccanismi all’investimento in attività umanitarie come il diritto alla salute, i prestiti a sostegno di uno sviluppo compatibile socialmente ed ecologicamente.

Infine ma non per ultimo è giusto cercare di arginare la deriva dei diritti del mondo del lavoro, accentuata dalle politiche della globalizzazione che consentono un uso dei lavoratori come merce. Sfruttamenti, licenziamenti, lavoro precario e flessibile, da poter usare nei tempi, nei modi e nei luoghi a piacimento dell’azienda.

Proprio su questi problemi e perché no anche per trovare nel mio lavoro di bancario un disperato senso etico, mi è sembrato fosse giusto, doveroso schierarsi.

Forse perché ritengo sia più importante manifestare un pensiero in controtendenza partendo proprio dall’altra parte, da quel mondo del capitale, del denaro, del potere che è costituito dalle Banche.

Per questi motivi la bandiera sotto cui stare non poteva che essere quindi quella del sindacato, il FALCRI sindacato autonomo dei lavoratori del credito, l’unico del settore ad aver realizzato (grazie a noi) qui a Milano un anno prima un convegno sulla globalizzazione.

Orgogliosamente lo riterrei uno dei momenti sindacali più attivi, nuovi e propositivi per una categoria spesso chiusa in problemi corporativi.

Lì parlando di poveri, ma anche di ambiente, di diritti negati ai bambini, di libertà e salute aprivamo porte lasciate chiuse. Quello è stato una specie di Social Forum e quindi Genova 2001 non poteva che essere l’ideale continuazione dopo essere stati anche al Social Forum di Firenze dove incontrare Noam Chomski, Vandana Shiva è stato come essere essere protagonisti di idee, di cambiamenti per un Altro Mondo Possibile.

Non solo un sindacato quindi, ma un’anomalia fatta di compagni, gli amici di sempre, non solo di lavoro anzi direi soprattutto di “movimento”.

Con loro non si è mai fermi, che si tratti di discutere un contratto nazionale o di controllare l’igiene e la sicurezza sul posto di lavoro, o che si organizzi una mostra di libri, una manifestazione sull’handicap o un concerto delle “mondariso”.

Su cosa avremmo trovato a Genova nessuno di noi poteva saperlo. Dovevamo esserci e basta! E per fortuna che come noi c’erano centinaia di associazioni, migliaia di persone di diversa estrazione e colore.

Bene abbiamo fatto a scegliere Piazza Manin come punto di ritrovo, il 20 luglio in quella che era stata battezzata “La giornata delle piazze tematiche e della disobbedienza civile”. Proprio lì infatti sarebbero confluite le diverse anime, soprattutto le più pacifiche di quel minestrone dai mille sapori che è la rete di Lilliput, lì riuniti con banchetti, palloncini e striscioni in un clima di festa.

Certo sarebbe stato bello partecipare ai convegni, ai dibattiti dei giorni precedenti, al Genova Social Forum e dialogare con i filosofi, gli scienziati ed i santoni no global, ma soprattutto cantare, suonare e ballare nel coloratissimo corteo dei migranti del giorno prima, ma gli impegni di lavoro e soprattutto  di famiglia non  ci permettevano un  periodo lungo  di assenza  .

Si è deciso così per il venerdì 20 e tutto era cominciato bene, fin dal mattino sul bus che da Nervi ci portava a Genova con i ragazzini gioiosi di Pinerolo arrivati come in gita con magliette gialle originali con scritte no global d’obbligo. Anche noi non eravamo da meno con la nostra maglietta autoprodotta (solo un po’ troppo aderente visto il fisico non più da ventenne) disegnata da Alberto che mostrava una G ricurva seduta a vomitare su un “cesso” a forma di 8 e una scritta “Fuck the Niù Ekkonomy” ispirata dall’ultimo libro di Stefano Benni, che lasciava pochi dubbi sul nostro pensiero.

No, non ci sentivamo vecchi vicino a quei ragazzi dalla parvenza oratoriale emozionati di essere a Genova a manifestare forse per la prima volta.

Una certa emozione c’era comunque anche tra noi, non lo nascondo, motivata dal senso di appartenenza, di fratellanza con tutti quelli che erano arrivati lì per manifestare da tutto il mondo, anche noi parte attiva di quella tribù allegra, variopinta e creativa. Quasi un festival, un happening dalle portaerei di cartone che si trasformavano in scuole e ospedali, alle mutande giganti che prendevano in giro i potenti capi di stato e le “esternazioni” del nostro presidente del consiglio che non voleva vederle perché indecorose; a Don Gallo e Franca Rame vestiti da carcerati e altro tanto ancora.

La sensazione è di quelle giuste, si sta bene con la Rete di Lilliput, Mani Tese, le femministe ed i comunisti turchi, gli amici del centro sociale di Novara e con l’amico Stefano Apuzzo “mitico” animalista a sfilare in corteo con noi.

Con il nostro striscione veniamo accolti con sorpresa e simpatia, qualcuno dei bancari presenti in incognito al seguito di altre associazioni ci incoraggia, ci vuole conoscere, parlare, scambiare indirizzi.

Radio Popolare ci intervista, vuole sapere se abbiamo preparato qualche animazione, qui tutti i gruppi di affinità hanno preparato un intervento da fare nel momento collettivo della protesta.

Noi abbiamo solo una canzone ma verrebbe da dire “i no global per questo G8 è da mesi che si stanno preparando ma noi non ne abbiamo avuto il tempo “Num fin a ier uma lavurà!” ma non mi tiro indietro e a voce nuda accenno, con i miei compagni a rispondere in coro rappando a “cappella” il ritornello “Ma per un bambino non c’è sorriso se lavora quindici ore per un pugno di riso…” di “Diritti e Dignità” composta insieme agli altri amici-musicisti dei Cantosociale che avrebbero voluto anche loro essere li con noi a suonarle. 

Superato il mezzodì si va ad attaccare simbolicamente la “zona rossa” di piazza Corvetto, ma dopo poche centinaia di metri si capisce subito che le cose non andranno come previsto, tronconi di un altro corteo, quello dei “creativi” gli artisti i “pink” tedeschi e francesi, si inserisce nel nostro sospinto dalle cariche della polizia che sta andando giù dura contro chi si avvicina alle gabbie delle altre zone.proibite.

Infatti il sit-in previsto per le 14.00 non si può più fare.

Genova diventa improvvisamente una città maledetta, le strade che prima erano mute e deserte si riempiono di gente che da sola o a gruppi scappa mostrando evidenti segni di scontri, sangue, lividi, teste spaccate e magliette strappate.

Giovani dall’aria spaesata e smarrita si sentono traditi dalle forze dell’ordine “ci hanno attaccato senza alcun motivo”.

In piazza Manin sotto una cortina di lacrimogeni terribili, urticanti al peperoncino, impauriti e sanguinanti alcuni ragazzi piangono proprio davanti ai banchetti che erano festanti solo un’ora fa ed ora sono ridotti a macerie, come se fossero passati dei barbari.

Lì intorno in effetti ci sono ragazzi in tuta nera e poliziotti con bandane nere e tute antisommossa che poco o niente si differenziano, sembrano masnadieri pronti a tutto.

Più in là li vedono, i Black, da vicino saccheggiare un supermercato sfondando la vetrata e depredando tutto e poi incendiando con i poliziotti che vedono e nulla fanno stando a debita distanza lasciando che questi si muovano in gruppo come squadracce fasciste.

La manifestazione non ha più ragion d’essere, la città è in guerra, in stato d’assedio.

Elicotteri sorvolano a bassa quota, fumo e ambulanze riempiono l’aria mentre noi disperatamente cerchiamo di uscire dal labirinto di Brignole risalendo e scendendo vie strette, superando trappole e cambiando spesso percorso cercando di stare uniti usando i cellulari come trasmittenti, due di noi davanti in ricognizione e noi dietro a seguire fermati a volte dai cassonetti bruciati che spostiamo dalla strada per far passare le ambulanze.

Riscendendo verso Nervi, dove avevamo il nostro pulmino, ci mescoliamo al corteo della disobbedienza civile, lo percorriamo al contrario cercando una via di fuga, in testa vediamo ancora fumo, sentiamo colpi e lì a poca distanza verrà ucciso Carlo Giuliani.

Nel corteo numerose ed improvvise fughe sospinti dalle azioni violente dei Black Block, il blocco nero in assetto di guerriglia organizzati come una falange militare, un corpo di guastatori che nonostante venissero respinti, rientravano a lanciare sassi e molotov difficile pensarli come anarchici idealisti nella mia idea romantica e originaria del termine. Qui sembravano mandati apposta a distruggere le nostre intenzioni forse utopiche, a farci del male.

Finalmente dopo oltre 3 ore di cammino e di corse, usciamo dall’inferno e approdiamo come viandanti in fuga al primo “porto franco” aperto nella via per Nervi: un circolo Arci affiancato da una sede dell’ANPI.

Ci è apparso subito come un luogo famigliare e di amici, “siamo venuti in pace!” ho detto entrando con le braccia alzate ed in mano un salame e dal bancone del bar la signora mi risponde con una battuta “Ah! Se siete con Bush qui non si serve niente!”

Ci sediamo al tavolo, la gente si avvicina per sapere, “ma voi con chi eravate?” “Da che zona venite?” “Ma in città è così un’inferno?” Come fosse gente di Beirut, Sarajevo, Roma “città aperta”.

Un portuale simpatico, dai lineamenti duri si avvicina per salutarci prima di andare via, ci dice “Domani ci saremo anche noi a darvi una mano nella manifestazione, ci saranno 15.000 camalli incazzati!” “Però cosa vuol dire bruciare le macchine…..uno magari ha fatto delle cambiali per pagarla e quelli lì gliela bruciano, a un lavoratore come noi!”

Rifocillati e rincuorati prendiamo il bus di ritorno per Nervi dove abbiamo la macchina, sono poche fermate, e lì tra le facce dei giovani manifestanti sudati, stanchi e pestati apprendiamo della tragedia.

Quegli occhi sbarrati, il silenzio irreale, in un luogo così affollato, interrotto da brevi bisbigli, quella parola “un morto” sono ancora molto nitidi nella memoria e chissà se sfumeranno col tempo.

La rabbia, la tristezza, i se ed i ma, le nostre risposte su quello che era successo, i confronti con la storia recente e passata si susseguono confusi con le onde radio sulla macchina nel viaggio di ritorno.

La convinzione è che dopo questa giornata nulla sarà più come prima anche per noi.

La sera tardi mi addormento a casa dopo ore e ore passate con l’orecchio alla radio per catturare notizie, voci, impressioni senza riuscire a dire una parola anche con mia figlia e mia moglie.

Chiudo gli occhi sull’ultima immagine in TV di una Genova buia, notturna con il faro dell’elicottero della Polizia a controllare, cercare, spiare, comandare dall’alto.

Uno shock che si trascina per giorni, così come il dolore inguinale crescente, “regalo” di quella maledetta giornata, che sarebbe culminato in settembre con un’intervento chirurgico all’ernia, e soprattutto una pressante quasi terapeutica esigenza di raccontare, discutere, parlare di quello che è successo, di quello che ci poteva succedere, a chi c’era e soprattutto a chi non c’era e che chissà quale idea si sarà fatto dai tambureggianti media, appositamente “mediati”.

Questo è stato il racconto che una settimana dopo i fatti di Genova ho sentito la necessità di scrivere non necessariamente per essere pubblicato, soprattutto per me stesso, quasi un esigenza psicofisica, e oggi a distanza di anni credo sia giusto metterlo insieme a mille altre racconti che da quei giorni si sono susseguite, orali e scritte. Per testimoniare con le proprie esperienze a tutto quello che ci han voluto dire e scrivere di falso, e rispondere a chi diceva e ancora dice “se uno sta a casa queste cose non gli succedono…si sapeva che quelli li sarebbero andati là per fare casino… ti è andata ancora bene!”. Che non si può sempre stare a guardare.

Incontrando poi recentemente il papà e la mamma di Carlo Giuliani il 25 Aprile scorso a Costa Vescovato su una collina prima di un nostro concerto, a parlare di resistenza e di pace ho sentito l’esigenza di recuperare la poesia che avevo scritto in quei giorni e che nelle intenzioni sarebbe dovuta diventare una canzone ma non ho mai trovato la musica giusta per esprimere in pieno la tristezza, il dolore, la rabbia.

Questo l’ho scritto dieci anni fa …e oggi?

A distanza di vent’anni considero quei giorni e quegli anni un’esperienza che ha aperto e al contempo chiuso molte strade, forse un utopia, quel movimento che è stato volutamente e scientificamente stroncato ma… le idee non muoiono mai… e allora a distanza di anni quell’aria l’ho respirata, almeno questa è stata la mia percezione e non solo la mia nelle manifestazioni sul clima pre pandemia e credo potranno riprendere spero con ancora più forza comprendendo altri temi connessi. Forsa giuinott l’idea l’è mai morta!!!

Questa la poesia

20.7.G8

G8 GENOVA

GIOCOSO GIOIOSO VOCIARE

SOLIDALE                        

BANK ETICO AMBIENTALE

MANIN MANITESE PER INCONTRARE

PIAZZE VICOLI A RIEMPIRE

IN RETE SOLARE MANIFESTARE RADIOPOPOLARE

IN CORTEO INGENUI ASTANTI

LILLIPUZIANI SALTELLANTI

MUTANDE A VELEGGIARE SBEFFEGGIARE

SUPPONENTI NARCISI

CINICI DUCI DI BON TON

IMPROVVISAMENTE  IMPROVVIDO

INFIDO CALDO POMERIGGIO SALE

ALTE PESANTI GABBIE IDRANTI

SIRENE URLANTI 

CAMIONETTE ARREMBANTI

IMPERIALI PROTERVI ELICOTTERI OSSERVANTI

E’ STATO DI POLIZIA

FUMO ACRE DI BRUCIATA VIA

IMPEDITE USCITE IN LABIRINTO DI PAURA

CELERE DURA BANDANE SCURE BARBARE INCENDIARIE FIGURE

CONFUSI FREDDI PRESAGI IN ANSIMANTE CORSA

A PRECIPITARE SUL BUS

STRETTI   

BISBIGLI SOSPETTI

SGUARDI DIRETTI

UNA VOCE

LA RADIO

UN MESTO RICORDO

UN MORTO.

REGGIO EMILIA, 7 luglio 1960

Testo a cura di Giuseppe Abbà

61 anni fa, il 7 luglio, la polizia sparava contro una manifestazione antifascista uccidendo 5 manifestanti: Lauro Ferioli, Emilio Reverberi, Ovidio Franchi, Afro Tondelli, Marino Serri, tutti iscritti al Partito Comunista o alla Federazione Giovanile. Ovidio Franchi era il più giovane, appena 19 anni.

La manifestazione antifascista era stata indetta per protestare contro il governo Tambroni. Il governo Tambroni era nato, dopo una lunga crisi di governo, nella primavera 1960 ed era un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del partito neofascista (il MSI-Movimento Sociale Italiano, diretto erede della Repubblica Sociale fascista).

Il governo Tambroni permise che si celebrasse a Genova il congresso del MSI, per di più presieduto dal prefetto di Genova dell’epoca repubblichina e dell’occupazione nazista. Era, ovviamente, un gravissimo affronto per Genova, città Medaglia d’oro della Resistenza. Ci fu una vera e propria sollevazione popolare guidata dalle forze antifasciste con alla testa Sandro Pertini. In prima fila i portuali e gli operai delle fabbriche di Genova, i partigiani (erano passati solo 15 anni dalla fine della guerra), nonché i giovani (le famose “magliette a strisce”). Ci furono violenti scontri con la polizia dove ebbero sostanzialmente la meglio i manifestanti, tanto è vero che il congresso del MSI fu annullato.

Nei giorni successivi ci furono altre manifestazioni contro il governo Tambroni. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, ci fu la prima vittima per mano della polizia (Vincenzo Napoli). Il 6 luglio a Roma, a Porta San Paolo, un corteo, nel quale c’erano una cinquantina di parlamentari del PCI, PSI, PRI fu violentemente caricato dalla polizia a cavallo. Il 7 luglio i 5 morti di Reggio Emilia. L’8 luglio la CGIL proclama lo sciopero generale e a Palermo la polizia uccide tre manifestanti: Andrea Gangitano, di soli 14 anni, Francesco Vella, operaio edile, dirigente di una sezione comunista, una donna, Rosa La Barbera di 53 anni. Nello stesso giorno, a Catania, la polizia uccide un giovane comunista, Salvatore Novembre. Altre grandi manifestazioni di susseguirono, sino a che, il 19 luglio, Tambroni si dimise. Fu una grande vittoria dell’antifascismo. Memorabile fu la canzone che Fausto Amodei dedicò a quegli avvenimenti: I morti di Reggio Emilia.